Da qualche mese i media ed i politici ci comunicano che la produzione sta aumentando e che, di conseguenza, la crisi ormai dovrebbe essere superata. È vera questa cosa? Solo in parte.
Quello che non ci dicono, infatti, è che questi dati sono “aggregati”. Ovvero esprimono un valore generato complessivamente dalle aziende italiane, senza specificare l’aspetto più interessante: quello che sta realmente accadendo – come ha evidenziato anche Fabrizio Cotza in un bel post sul Linkedin – è che poche aziende stanno crescendo a doppia cifra (quindi ben più degli striminziti zero virgola qualcosa dei dati aggregati), mentre la maggior parte sta ancora soffrendo e continua ad essere a rischio.
Ma chi è che cresce maggiormente?
A dispetto di quanto si possa credere alcune PMI crescono molto più delle multinazionali.
Un articolo dell’Economist, pubblicato in italiano sul numero di “Internazionale” del 2 marzo smonta il classico luogo comune in cui le multinazionali divorano quote di mercato a danno delle imprese più piccole e locali. Il titolo è quanto mai esplicito: “Multinazionali in ritirata”.
Alcuni dati, infatti, parlano chiaro:
“…negli ultimi cinque anni i profitti delle prime settecento multinazionali del mondo industrializzato sono diminuiti del 25 per cento.”
“…i profitti delle aziende nazionali sono cresciuti del 2 per cento.”
“Negli Stati Uniti, nel Regno Unito e nei Paesi Bassi, i tre paesi che da sempre ospitano le multinazionali più grandi e più importanti, il roe sugli investimenti all’estero si è ridotto a percentuali comprese tra il 4 e l’8 per cento.”
La ovvia conclusione che questi numeri portano ad affermare, come riporta il giornale, è che “Le opportunità offerte dai mercati esteri si sono esaurite.”
“Negli anni novanta e duemila i governi volevano che i loro campioni nazionali si internazionalizzassero per diventare più grandi e intraprendenti… Lo scenario è cambiato dopo la crisi. Le multinazionali sono state accusate di produrre disuguaglianza. Portavano lavoro all’estero, ma non in patria: tra il 2009 e il 2013 solo il 5 per cento (400mila posti di lavoro) dell’occupazione netta creata negli Stati Uniti si poteva attribuire alle multinazionali con sede nel territorio nazionale…I profitti derivanti dalle proprietà intellettuali finivano in tasca a una ricca élite di azionisti.”
Raccontata così sembrerebbe una storia a lieto fine, scrive Luciano Martinoli nel post “La caduta degli dei (e dei loro miti)”.
E’ forse la fine di una storia dove una banda di “cattivi”, le multinazionali, hanno scoperto che la pacchia è finita e vi è la rivincita dei “buoni”, le aziende nazionali, che fanno del bene in loco? Purtroppo – continua Martinoli – non è così, la storia è più complicata e, soprattutto, più preoccupante.
Sembra che a partire degli USA paese elettivo dell’innovazione, si sia persa la spinta ad innovare.
E’ la tesi di un recente libro dal titolo The Complacent Class del professor Tyler Cowen professore di economia presso la George Mason University .
A partire da alcuni dati (diminuzione del numero delle start-up sul totale delle aziende USA, crollo del 50% dei cambi di lavoro all’anno dei dipendenti alla ricerca di migliore opportunità, caduta della produttività e della registrazione di brevetti) il prof. Cowen teme che l’America sia sempre più caratterizzata da “una avversione al rischio così come verso qualsiasi cosa che sia insolita o differente.”
Egli vede molti segnali che “la popolazione americana sta perdendo la capacità di immaginare un mondo dove le cose cambiano rapidamente per molti se non per tutti”.
Quale può allora essere la morale di questa storia?
La prima la fornisce proprio il Prof. Cowen quando nota uno “spostamento delle energie sociali dal costruire un mondo nuovo e più libero a un riorganizzare i pezzi del mondo che già abbiamo”.
Stiamo ottimizzando ciò che c’è e questo significa fare le stesse cose a meno (Uber, Airbnb, estrazione petrolio tramite fracking, ecc.) col risultato netto che qualcuno, o qualcosa, ci guadagnerà a scapito di qualcuno o qualcos’altro.
La seconda e forse più importante – continua Martinoli nel suo post – è che è finita l’era della “innovazione facile”, quasi banale.
Abbiamo un armamentario di tecnologie che non si era mai visto prima nella storia dell’umanità e sta venendo fuori che ci manca la tecnologia più importante: come progettarne usi migliori, per creare mondi più liberi e nuovi.
Chi innova e progetta nuovi prodotti e servizi può crescere a doppia cifra (che sia PMI o multinazionale), altrimenti è inutile che aspetti una fantomatica ripresa.
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