Articolo pubblicato su “Senzafiltro” il 14 settembre 2016
Da diversi anni seguo e progetto corsi di formazione per disoccupati e più di una volta mi sono chiesto se avesse senso questo tipo di formazione: investire risorse sull’orientamento creando tante aspettative in un mercato del lavoro piuttosto fermo.
In particolare ho qualche dubbio sull’insistere, come fanno diversi orientatori, sul concetto di “imprenditività”: sul fatto cioè che la persona che cerca lavoro debba aver un atteggiamento “imprenditoriale”, attivandosi per far accadere qualcosa senza aspettare che il lavoro cada dall’alto.
Una frase, che è diventata virale sui social network rende molto chiara questa idea: “Il lavoro non si cerca. Il lavoro si attrae. Il lavoro si attrae diventando la persona più competente, più capace, che sia in grado di aggiungere più valore di chiunque altro. E a quel punto il lavoro magicamente appare”.
Sebbene questa frase sia piaciuta molto, riproposta anche da persone in cerca di lavoro, c’è chi, come Massimo Ferrario, ha messo in luce il lato oscuro di questo pensiero positivo sottolineando come in un mercato del lavoro fermo – e che offre spesso lavori con bassa qualificazione – diventa davvero difficile crearsi le competenze (per giunta le migliori sul campo) e spesso “si trovano soltanto dei lavori ultra-precari e talmente cretini che non ti insegnano nulla perché sei tu che devi insegnare loro tutto”.
Inoltre politici, istituzioni, imprenditori ed esperti di lavoro si deresponsabilizzano rispetto al ruolo che dovrebbero giocare e trovano comodo scaricare sui singoli individui la loro ignavia.
Colpevolizzandoli per lo più (ma loro dicono ‘responsabilizzandoli’), perché non si danno da fare abbastanza nell’essere imprenditori-di-se-stessi e trovarsi il lavoro-che-non-c’è.
Da alcuni anni mi rendo conto come il tema sia delicato: sebbene condivida la critica che Ferrario rivolge “ai troppi psicantropi più o meno amerikanoidi” che scaricano sul disoccupato la responsabilità della sua situazione, è anche vero che in aula e durante il tirocinio ho visto molti disoccupati con pretese e aspettative difficili da giustificare.
Qualche esempio.
- In un tirocinio, un aspirante pizzaiolo si è rifiutato di scaricare il camion con la legna per il forno, sostenendo che lui era un pizzaiolo, non addetto allo scarico merci.
- Un altro pizzaiolo, eccellente in aula, dopo una settimana di tirocinio è stato cacciato dal titolare perché dopo il terzo giorno si è messo a criticare in modo pesante le modalità di lavoro e di preparazione della pizza, inimicandosi tutti i colleghi (e chiaramente anche il titolare).
- Un partecipante al corso per disoccupati per “addetto alla contabilità” si lamentava perché dopo una settimana di tirocinio non aveva ancora svolto mansioni da “contabile” ma solo attività di “segreteria”. E stava “perdendo” tempo.
- Però c’è stato anche il caso di un partecipante al corso per “addetto al montaggio industriale” che durante il tirocinio aveva poco da fare e si è messo lavare i vetri dell’azienda che lo ospitava. Da solo, senza che nessuno glielo avesse detto. L’azienda, che inizialmente non pensava di assumerlo, al termine del tirocinio gli ha fatto un contratto.
Il tema è difficile perché sono vere entrambe le cose: è vero sia che ci sono persone molto competenti disoccupate (e i corsi per disoccupati sono sempre più frequentati anche da laureati), però è anche vero che alcune possibilità ci sono e una certa pro-attività può fare la differenza.
Tenere insieme le due cose, responsabilizzando senza colpevolizzare, non è facile ma è fondamentale.
Pur sapendo che il lavoro è poco e non serve a molto avere una mappa per cercare un tesoro che non c’è, ogni disoccupato ha anche un piccolo potere, un piccolo spazio di responsabilità su cui poter lavorare. Non basta per far apparire magicamente il lavoro ma può favorire le condizioni perché qualcosa accada.
Per questo, nonostante tutto, ritengo fondamentale una fase di orientamento per sostenere i disoccupati alla ricerca di lavoro, anche se il punto non è tanto trovare la strada giusta o saper scegliere tra le varie strade.
Il fatto è che le strade non ci sono più, si tratta di “orientarsi” come ci si orienterebbe in un deserto o in mezzo al mare dove non ci sono sentieri già segnati, ma ognuno prova a crearsi la sua strada.
Da questo punto di vista condivido la frase citata inizialmente in cui il lavoro non è qualcosa che si cerca, come se fosse qualcosa di già dato, che è la fuori e ti aspetta (come era negli anni ’50-’60 dove ogni diplomato o laureato aveva il lavoro già pronto e doveva solo scegliere), ma richiede un minimo di attivazione.
Da qui ad affermare che “a quel punto il lavoro magicamente appare”, è palesemente falso, oltre che pericoloso, ma mi pare importante salvare almeno la prima parte della riflessione.
La realtà è complessa e “ossimorica”: fatta cioè per il 99% di et-et, e quasi mai di polarità opposte e separate di tipo bianco-nero o male-bene: il paradosso del lavoro non fa eccezione.
Bell’articolo, ben equilibrato.
Credo che in materia di contrattazione del lavoro si debba tenere conto dell’estrema complessità causata dal materiale umano coinvolto (sia dalla parte dei lavoratori che dei datori di lavoro).
Nei diversi approcci al lavoro si possono anche ravvisare i grandi errori dei sindacati italiani, che si sono spesi grottescamente per difendere scansafatiche al limite della criminalità, ma non hanno mosso un dito per distinguere invece (e salvaguardare) i diritti dei lavoratori meritevoli.
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Grazie Andrea per il feedback. Sui sindacati ci sarebbe tanto da dire…. Basta solo pensare che ancora oggi nei comunicati di varie sigle sindacali della Pubblica Amministrazione si parla di “Macchina burocratica”, senza capire che quel linguaggio contribuisce alla spersonalizzazione delle persone. Le persone non sono ingranaggi di una macchina e la PA non è una macchina. Fino a che la vediamo in questo modo non cambiamo le cose e stupisce che coloro che dovrebbero prendersi a cuore le persone (i sindacati) contribuiscano a confermare questa visione del mondo del lavoro.
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Ammetto che, più della definizione a parole
della visione meccanicistica del mondo del lavoro, mi preoccupano gli squilibri sostenuti dai sindacati (che difendono chi ha già garanzie, ma non hanno mai mosso un dito per i precari). Oppure il fatto che, come i partiti, non hanno mai accettato di rendere pubblici i propri bilanci.
Comunque sia la ricerca del lavoro è un tema importante oggi, e se è vero che le aziende spesso sfruttano i dipendenti (il plus valore è un concetto inconfutabile), è anche vero che tanti, troppi lavoratori non hanno un’etica del lavoro – e creano danni a tutta la categoria.
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Sono perfettamente d’accordo che il sindacato tuteli per la maggior parte lavoratori che di lavorare ne hanno ben poca voglia.
E poi ci sono settori e settori, e un CCNL di categoria deve per forza essere declinato a seconda delle caratteristiche di ogni settore merceologico.
Ad esempio, una catena di montaggio auto è facilmente gestibile con orari blindati e categorici (finisco io, continua il montante) senza dover per forza incappare in trappole su straordinari, pause pranzo, impegni inattesi e produzioni last minute.
Nel caso della Ristorazione, ad esempio, come si fanno ad avere orari ferrei di lavoro, minuto in più in cui scatta straordinario, personale extra in caso di clienti inaspettati o last minute, e centinaia di altre sfumature classiche del settore? Una cosa è certa: se l’imprenditore, “in Italia” deve pagare lo straordinario, anche di 20 minuti, ad ogni lavoratore che sfora oltre l’orario di lavoro, chiuderà matematicamente bottega in pochi mesi, perchè parliamo di un settore in cui i margini sono all’osso se correlati alla capacità attuale di mercato e con la pressione fiscale del nostro paese.
C’è però di più: se fai questo lavoro, devi farlo con passione e non pensando ai minuti in più; in questo settore i sindacati si devono impegnare a punire chi approfitta spudoratamente del tempo e della disponibilità di un lavoratore. Se uno non ha passione per fare il cameriere o il cuoco, è meglio che cambi lavoro, anzichè accanirsi con mostruosa presunzione di dover cambiare cose che sono così da millenni, Perchè solo così possono essere. La mia frase è “vai a fare altro, perchè non è per te”. Allo stesso tempo, però, sono d’accordo con colui che, pizzaiolo, non accetta di scaricare un camion di legna, perchè non è il suo lavoro. Mentre apprezzo colui che invece, per accelerare i tempi e per tenersi in forma dice “dai, che ti do una mano anch’io anche se poi devo fare le pizze”. Ma il mio apprezzamento va a lui, non al suo datore di lavoro. Ma se sei pizzaiolo, finchè non va via l’ultimo cliente, devi essere li, fiero di essere, con la consapevolezza che se chiedessi di farti pagare lo straordinario, forse quel lavoro dopo qualche mese non lo avresti più causa fallimento.
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No.
Avere voglia di fare, e fare, è un requisito etico per i lavoratori, ma lavorare a gratis (e fare straordinari per beneficenza rientra in questa categoria) è invece un furto da parte del datore di lavoro.
Sono due cose ben diverse.
Se l’imprenditore non è in grado di organizzare la propria attività in modo redditizio è sbagliato che sopravviva sulla pelle dei dipendenti – e non ha nulla a che vedere con la buona volontà di questi ultimi.
Se proprio il datore di lavoro vuole sostenere la propria azienda lavorando sottocosto lo può fare (e dovrebbe farlo) tagliando il SUO utile, non quello dei dipendenti.
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