A marzo 2008 fece un certo clamore a livello nazionale la notizia di una colletta per la costruzione di una moschea a Trento.
L’iniziativa della colletta, promossa da un comunità di credenti guidata dal frate cappuccino Padre Giorgio Butterini, era stata criticata e bocciata dal vescovo di Trento e la notizia aveva fatto un certo scalpore: sia per il fatto in sé – una colletta era decisamente un fatto controcorrente rispetto alla crescente diffidenza e paura verso i luoghi di preghiera islamica – sia per la reazione del vescovo di fronte ad un gesto di apertura e di dialogo.
“I frati finanziano la moschea. No del vescovo”, titolava il Corriere della sera del 26 marzo 2008 e sulla stessa linea la “Repubblica” scriveva: “A Trento la guerra della moschea. L’iniziativa del parroco della Santissima Trinità bloccata dal vescovo”.
Questo fatto aveva mi aveva suscitato parecchi interrogativi e riflessioni.
Come mai, nonostante i continui proclami e inviti al dialogo, un gesto che apparentemente sembra aprire una nuova via di pace e di confronto, veniva stigmatizzato e criticato? Quali erano le “buone ragioni” del vescovo e dei diversi sacerdoti che hanno espresso un parere negativo nei confronti della colletta?
Avevo cercato di approfondire la questione scrivendo un articolo poi pubblicato sul sito di Polemos, Scuola di formazione e studi sui conflitti.
A dieci anni di distanza i temi legati alla “conflittualità del dialogo” sono sempre più attuali e alcune riflessioni nate in quell’occasione possono aiutarci a comprendere – anche in campo manageriale e imprenditoriale – alcune situazioni conflittuali che viviamo nelle nostre organizzazioni.
La prima riflessione riguarda l’usura della parola dialogo, che ormai sembra avere perso ogni forza e significato. Su qualunque problema, tutti si dichiarano disposti al dialogo, sono favorevoli al dialogo, esprimono la necessità di un dialogo ecc, senza però esplicitare cosa il dialogo significhi veramente e cosa comporti.
In molte occasioni il dialogo si riduce ad un alternarsi di monologhi in cui ognuno tende ad auto-confermare la propria posizione, in cui l’obiettivo non è un “dia-logos” un doppio discorso, ma convincere l’altro, portandolo sulle proprie posizioni.
Il dialogo, come l’ascolto, invece, è una pratica profondamente conflittuale per chi la pratica, perché ascoltare l’altro significa, almeno in parte, togliere spazio a se stessi a favore di un altro che oltretutto la pensa in modo diverso da noi.
La pratica del dialogo e della valorizzazione delle differenze è fonte di sviluppo solo se, se ne accetta e se ne riconosce l’alto contenuto conflittuale che comporta per gli attori in gioco: il lasciarsi “penetrare” dall’altro e il mettere in gioco le proprie certezze, le proprie sicurezze acquisite.
È evidente che questa posizione genera una forte ansia di cui è importante prendersi carico.
Spesso si invoca il dialogo come panacea per risolvere un conflitto in atto, come se grazie al dialogo il conflitto potesse sparire; in altre parole si tende a considerare il dialogo come qualcosa di non conflittuale, di pacifico, anzi qualcosa che tende a disinnescare il conflitto: se c’è dialogo, non c’è conflitto.
In realtà il dialogo, quando è vero e sincero, mette in discussione, e il caso della moschea di Trento è esemplare su questo punto. L’iniziativa della colletta va sicuramente nella direzione del dialogo, dell’apertura, della pace, ma nello stesso tempo è qualcosa che crea forte tensione, crea domande, riflessioni e inevitabili divisioni.
Come diceva Pagliarani, la pace non è pacifica.
A questo proposito Pagliarani racconta nel libro “Violenza e bellezza” un aneddoto che può aiutare a comprendere le ansie e le paure che può generare un atto di apertura e di dialogo volto alla pace.
Durante una manifestazione per il disarmo atomico Pagliarani fu preso a schiaffi da una signora, la quale denunciava il fatto che aveva un figlio che stava facendo il servizio militare e che, in caso di disarmo dei paesi occidentali, sarebbe stato esposto alla minaccia del nemico.
Ne consegue – scrive Pagliarani – che il non violento deve sentirsi anche responsabile delle difese e delle angosce che genera nell’altro.
Tornando al caso della moschea, quindi, ha perfettamente ragione il vescovo quando sottolinea il fatto che la colletta può provocare tensione, divisione e un conflitto interno alle comunità della chiesa.
Però, criticare questo esito come negativo rivela a mio avviso due impliciti piuttosto discutibili.
Da un lato la pretesa che possa esistere un dialogo non conflittuale; mentre abbiamo visto come ogni tentativo di dialogo sincero, sia necessariamente conflittuale, e implica la necessità di accettare e convivere con questa conflittualità, senza negarla.
L’altro implicito, a mio avviso fallace, è che, dal momento che la scelta della colletta è una scelta provocatoria e conflittuale, un atteggiamento più cauto, più “pacifico”, che tenti di non intervenire, lasciando l’esistente così come è, sia una soluzione migliore.
Ma se la colletta può provocare un rischio di divisione, quali sono invece i costi dell’evitamento del conflitto?
La mia ipotesi è che i costi siano molto più alti e si traducano in una crescente paura e insicurezza nei confronti di tutto ciò che è Altro, in una continua chiusura e diffidenza verso ciò che è diverso da noi.
Qual è il problema in questo caso?
Padre Giorgio diceva che se “continuiamo a chiuderci in noi stessi solo in posizione di difesa, rischiamo di non aver più futuro”. Le risposte in difesa della propria identità, sono sicuramente rassicuranti, ma – come ha affermato anche Ugo Morelli durante una delle presentazioni del libro “Confitto”, anche se siamo portati educativamente a darci una identità fissa e stabile perché questa rassicura, possiamo oggi permetterci di non ammettere la conflittualità delle differenze anche all’interno di una singola esperienza esistenziale, privandoci della ricchezza che ci può derivare dal dialogo tra i nostri conflitti interni?
Il tema è cruciale: il conflitto, sinonimo di incontro, può essere altamente generativo, anche se doloroso. Ogni strategia di evitamento del conflitto, dalla chiusura per difendersi, al “non intervento” per non creare divisioni, rischia di impoverire le nostre relazioni e il nostro futuro.