Fra i tanti contributi, articoli, riflessioni dedicati ad Adriano Olivetti, uno dei miei preferiti è spettacolo teatrale “Sogni d’oro, la favola vera di Adriano Olivetti” scritto da Roberto Scarpa, attore, clown, drammaturgo.
Un monologo che rende in modo emblematico e unico lo spessore e il carisma di Adriano che fu nello stesso tempo imprenditore, politico, urbanista, scrittore, editore, sognatore, amante del design e dell’architettura. Ecco una sintesi del monologo*:
Ci sono molti lavori che mi piacerebbe saper fare ma quello più bello di tutti, per me, è cercare tesori. Partire senza assicurazione, con uno straccio di mappa scolorita,determinati a tornare solo quando il sacco sulle nostre spalle sarà pieno di qualcosa che cambierà la nostra vita.
Anche se, a pensarci bene, non sono sicuro che sia considerato un lavoro… Devo essermi addormentato perché sognai e all’alba del giorno dopo, quando mi sono risvegliato, avevo trovato il tesoro di cui adesso vi dirò…
Adriano nacque l’undici aprile del 1901 a Ivrea. Il padre, Camillo, era di famiglia ebrea. La madre, Luisa Revel, valdese.
Nel 1915 la fabbrica ha 125 dipendenti e Adriano viene mandato alla scuola pubblica. Ma l’esperienza formativa più importante l’ha fatta l’estate precedente quando Camillo gli ha organizzato uno “stage” particolare, mandandolo tredicenne a lavorare in fabbrica. È un trauma.
Ecco come lo racconta lui stesso: ”Nel lontano agosto 1914… mio padre mi mandò a lavorare in fabbrica. Imparai così ben presto a conoscere e odiare il lavoro in serie: una tortura per lo spirito che stava imprigionato per delle ore che non finivano mai, nel nero e nel buio di una vecchia officina...”.
Quanti pensieri provoca quest’esperienza: “E’ davvero una condanna e solo sofferenza il lavoro? Sarà capace di raccogliere la sfida paterna? Di essere uomo in mezzo a quegli uomini forti e cupi che lavorano tutto il giorno? L’orario settimanale allora è di sessanta (sì, avete capito bene, sessanta) ore.
Confessò anni dopo: “Passavo davanti al muro di mattoni rossi della fabbrica, vergognandomi della mia libertà di studente, per simpatia e timore di quelli che ogni giorno,senza stancarsi vi lavoravano”.
Aveva pensato di non entrare nella fabbrica paterna, ma il fascismo frantuma le sue aspirazioni e nell’agosto del ‘24 entra nel capannone di mattoni rossi come operaio, alla paga di lire 1,80 l’ora.
La fabbrica è tetra, maleodorante, piena di fumi e di rumori ossessivi. Quell’anno produce 4.000 macchine. Siccome ci lavorano in 400 il calcolo è presto fatto: 10 macchine all’anno per addetto.
Finito l’apprendistato, Adriano fa la sua prima diagnosi: l’Olivetti è a “un grado di sviluppo critico, troppo grande per disinteressarsi della concorrenza, troppo piccola per vincerla…Soffre di un assoluto accentramento di funzioni”.
Bisogna cambiare. Fa una proposta: una macchina per scrivere portatile. Camillo ascolta e prende tempo. Intanto, gli dice, vai in America, l’esperienza ti farà bene.
Adriano arriva a New York il 2 agosto ‘25. Fedele allo stile di famiglia viaggia in seconda classe, dorme in ostelli e si permette poche distrazioni. Come Camillo trentadue anni prima, anche lui è lì per capire.
Cerca di vedere la grande fabbrica concorrente, la Underwood che sforna 850 macchine al giorno. Siccome non lo fanno entrare passeggia intorno ai muri di cinta e se la immagina. Riesce però a visitare la Remington e la Corona: incrocia i dati e giunge alla conclusione che la media delle migliori fabbriche americane è di 45 macchine per operaio all’anno. Molto più che a Ivrea.
Decisiva è la visita alla Ford. La racconta come un miracolo di organizzazione. Quando riparte, il 16 gennaio ’26, ha visitato 105 fabbriche ed è convinto che “il segreto dell’industria americana non sta negli uomini… ma nella struttura dell’organizzazione e nel rigore dei metodi”.
Adriano ha tempo e mette per scritto le sue proposte di cambiamento. La cosa più importante è l’organizzazione: non basta avere uomini di valore, devono essere organizzati in modo nuovo. I capi officina saliti dalla gavetta vanno sostituiti con tecnici formati all’università. E poi… una macchina portatile farebbe furore.
Camillo, che adesso ha una lunga barba bianca da predicatore, intuisce che nel figlio c’è stoffa ed è felice di fargli spazio. Al momento di dare il via alle innovazioni gli dà un ordine. Uno solo: “Tu – gli dice in modo perentorio – puoi fare qualunque cosa, tranne licenziare qualcuno per motivo dell’introduzione dei nuovi metodi perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligge la classe operaia”. Adriano non se ne dimenticherà.
La sfida è vinta. Con i nuovi metodi il tempo di montaggio di una macchina passa da 12 a 4 ore e mezzo. L’indice di produttività quasi raddoppia. Quando nel 1930 esce la M40 la produzione ormai è in serie.
Si fa domande ingenue Adriano: “Qual è il significato dell’industria complessa di massa? Può esaurirsi nella produzione e nel profitto? Ha dei compiti nei confronti del territorio dove opera?”
L’Olivetti adesso è al terzo posto mondiale: esporta 15.000 macchine da scrivere e in Italia ne vende 30.000; produce la prima telescrivente e inizia a pensare alle calcolatrici.
Alla fine degli anni ’30 il lavoratore Olivetti arriva in fabbrica con un autobus a prezzi scontati e ci trova mensa, infermeria e biblioteca. Le lavoratrici hanno nove mesi di aspettativa retribuita (contro i due di legge) e un asilo nido con stanza per l’allattamento.
Ci sono colonie marine e montane, e un convalescenziario. Per la casa c’è la Società cooperativa edilizia che concede mutui sino alla metà del costo e controlla lo stile dei progetti. I dipendenti che investono nell’azienda ottengono mezzo punto d’interesse in più di quanto avrebbero dalle banche.
’39, ‘40… il regime fascista abolisce la Camera dei Deputati e invade l’Albania… Germania e Unione Sovietica firmano il patto di non aggressione e… si spartiscono la Polonia… Francia e Gran Bretagna dichiarano guerra alla Germania. Più o meno negli stessi giorni in cui Chaplin gira Il grande dittatore, l’Italia, meno lungimirante, entra in guerra.
Ancora una volta l’Olivetti resiste bene, in tutti i sensi, al macello che si scatena.
Proprio in quegli anni realizza la prima addizionatrice, la Summa. È opera di un disegnatore industriale geniale. Si chiama Marcello Nizzoli. Dirà, anni dopo, di essere rimasto sorpreso di come Adriano avesse scoperto in lui capacità che egli stesso non sapeva di avere.
Nel dopoguerra il caso vuole che una Remington Printing Calculator, sequestrata come preda bellica, finisca a un’asta. È un ufo, nessuno sa cosa sia, come funzioni.
In azienda però c’è un genio, Natalino Capellaro, che la fa comprare, la smonta, la studia e ne tira fuori la Divisumma: la macchina più veloce del mondo nelle moltiplicazioni e l’unica a conservare il saldo negativo. Il successo è travolgente. Costa 35.000 lire ed è venduta a 350.000. Per produrla occorrono 10 ore come per una macchina per scrivere ma il ricavo è triplo.
Il ’50 è un anno intenso… esce la Lettera 22… un successo mondiale da 200.000 pezzi.
Raccontare Adriano è fantastico perché è un uomo fuori da ogni schema. Anche la crisi economica del ’52 l’affronta a modo suo, in tre mosse: assume settecento venditori, ribassa i prezzi, apre nuove filiali.
È «un accentratore spietato», può «destituire dirigenti e direttori in modo improvviso». Ma quando un giorno scopre che un dipendente falsifica i conti e viene a sapere di una situazione familiare intricata, lo convoca, lo fa sedere… e gli annuncia che gli aumenta lo stipendio della somma di cui evidentemente ha bisogno. In futuro non dovrà più rubare.
Dice un giorno al responsabile delle relazioni sindacali: “Nella nostra fabbrica ci deve essere libertà: non soltanto perché ci crediamo, ma perché siamo un’azienda di inventori e l’invenzione ha bisogno di libertà”.
Nel ’53 Olivetti è prima in Europa per produzione, fatturato, numero di dipendenti. Nel negozio di New York sulla 5° strada si può provare una Lettera 22 rimanendo sul marciapiede. Watson Jr. trentenne presidente dell’IBM, folgorato, parte per Ivrea. Quando torna ha un obiettivo chiaro: fare come in Olivetti.
Ma macchine, design, successo, fabbrica… per Adriano sono solo mezzi, il fine è un altro.
Scrive Guido Piovene: “L’Olivetti è il caso più notevole esistente al mondo… d’industria…morale; ciascuna delle due parole, industria e morale, ha il medesimo peso… un tentativo… di fabbrica-opera d’arte, intesa ad alleviare la fatica del lavoratore e ad educarlo con il suo stesso aspetto. L’industria è per Olivetti uno strumento a doppio scopo, che deve mettere al lavoro e redimere dal lavoro…”.
Nel ‘57 la settimana lavorativa arriva a 45 ore e tutti i sabati sono liberi. Un lavoratore Olivetti 12 guadagna 60.000 lire al mese contro le 40.000 medie del settore. Se si conteggiano tutti gli altri benefici il livello di vita è superiore dell’80% a quello di chi lavora in industrie paragonabili.
Dagli stabilimenti escono 6 macchine al minuto. Dalla fine della guerra la produzione è aumentata 13 volte e l’occupazione è più che raddoppiata. L’indice di produttività è salito in media del 14% all’anno.
Eppure in azienda non ci sarà mai un organigramma. “Adriano li considerava dannosi perché ingabbiavano le persone”.
“Può l’industria darsi dei fini si domandava Adriano? Si trovano questi fini semplicemente nell’indice dei profitti? O non vi è al di là del ritmo apparente, qualcosa di più affascinante, una trama ideale, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?…”.
Non ci sono domande più pressanti delle domande ingenue. È vero. Il novecento ha suscitato le più grandi speranze che l’umanità abbia mai avuto e ha cancellato tutte le illusioni, gli ideali. Noi poi, ci siamo dimenticati tutto. O quasi. Ma i sogni di Adriano, l’uomo che sembrava un mendicante e al tempo stesso un re, quei sogni il novecento non li ha cancellati. Le sue domande ingenue ci restano. Sono il tesoro che ci ha lasciato in eredità.
Se il teatro è una festa, e io lo spero, il momento del brindisi è quando finisce, cioè adesso. E abbiamo bisogno di un motto per scambiarci gli auguri. Io ne ho uno da proporvi: Sogni d’oro! Come quelli di Camillo e Adriano.
Le notti passano, tutte. Anche questa passerà. Dicono che i sogni svaniscono quando spunta il sole. Ma io invece penso che è proprio di giorno che abbiamo bisogno dei sogni. Quindi a tutti voi, a tutti noi, di cuore, per farla terminare prima questa notte: Buongiorno! E sogni d’oro!
Roberto Scarpa.
* Il testo integrale dello spettacolo è consultabile sul sito di Polemos.
POST SCRIPTUM
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