Enrico Pezzi, è un ingegnere meccanico che da quasi trent’anni lavora allo sviluppo di nuovi progetti meccanici e meccatronici: in particolare ha gestito (e continua a gestire) progetti per il settore aerospaziale, per la Formula 1, per componenti di auto, moto, biciclette e veicoli in genere.
Dalla sua esperienza emerge come l’innovazione di cui tanto si parla, non sia sempre al centro delle preoccupazioni di tante nostre imprese.
Anzi, troppo spesso nelle aziende si respira un’aria stanca, un po’ da sconfitti, dove ognuno preferisce rimanere fermo per non rischiare quello che ha.
Un’analisi lucida, spietata, ma estremamente concreta della crisi contemporanea.
In tanti settori – sottolinea Pezzi – abbiamo un mercato saturo, con clienti che non hanno più tanti soldi e che hanno già tutto e per questi due motivi sono disposti a comprare solo qualcosa di nuovo e che porta effettivi vantaggi. E abbiamo diverse aziende che presentano prodotti non nuovi, che non portano vantaggi e che si lamentano che non vendono.
Per fortuna ci sono le eccezioni e qualche speranza in più nasce da nuove imprese, anche se spesso ancora piccole.
– Enrico, mi piacerebbe approfondire con te il tema dell’innovazione. Occupandomi di sviluppo organizzativo e intervistando diversi imprenditori, mi sembra che nonostante la parola “innovazione” sia molto di moda, si fatica molto a innovare davvero. Tu hai un punto di vista privilegiato, collaborando con aziende che si occupano quotidianamente di sviluppare nuovi prodotti e nuove soluzioni. Che ne pensi?
DUE ATTEGGIAMENTI. Quando si affronta un nuovo progetto (di prodotto, servizio o processo), soprattutto se viene richiesta una cosa che non è mai esistita, ci sono due atteggiamenti.

Il primo di titubanza e paura, si inizia a pensare: “C’è il rischio che non esca niente, che non funzioni, se il progetto viene male faccio brutta figura, si creerà un problema sia dal punto di vista del progetto sia dal punto di vista della considerazione personale …”.
Questo è purtroppo l’atteggiamento prevalente sui nuovi lavori.
Oggi, bisogna dire per fortuna, in società ci sono tante persone già affermate, in tanti abbiamo un nome da difendere, in tanti abbiamo uno stipendio da difendere, e fare una cosa nuova significa anche mettere a rischio la propria reputazione e quello che si è costruito.
Per questo, purtroppo, molti preferiscono dire “No, non lo faccio”. E i motivi sono i soliti: “Perché non serve, non ne vale la pena, non funzionerà mai, tanto se nessuno ci ha mai pensato…”.
Mille scuse perché la frase “tanto, se nessuno ci ha mai pensato…” si è sempre detta, però ogni anno nel mondo migliaia di brevetti vengono depositati per cui dire “se nessuno ci ha mai pensato…” non funziona, infatti viene ripetutamente smentita.
Sempre più nella nostra società un poco depressa e pochissimo entusiasta, quasi nessuno accetta di rischiare quello che ha, anche forse per la consapevolezza che la probabilità che vada male esiste, con questi presupposti.
Ma in questo modo l’azienda è destinata a subire il mercato, in particolare i prezzi sono, in qualche modo, imposti dai clienti.
Questo è l’atteggiamento prevalente, ma per fortuna non è l’unico.
Si possono anche accettare le cose nuove e le relative sfide, e buttarsi per cercare nuovi orizzonti, nuove esperienze, nuove possibilità, nuovi mercati. E c’è chi si muove in questo senso.
– Perché farlo nonostante i rischi?
INNOVAZIONE, RISCHIO E CRESCITA. Personalmente lo faccio perché ho bisogno di nuove sfide, forse un po’ per incoscienza, ma soprattutto perché ho imparato che questo è l’unico modo per crescere personalmente e fare crescere le aziende in cui si lavora.
Meglio una sconfitta crescendo che rifiutare la sfida; in qualche modo si apre sempre una strada in una direzione nuova, che comunque non andrà persa.
Se non va quel progetto, quello che abbiamo imparato verrà buono per un altro: in fondo questo è l’unico modo di non buttare via il proprio tempo, l’unico modo di far crescere la propria professionalità e i propri clienti.
Come sappiamo in Italia e in molti paesi europei i costi del lavoro sono alti e non è possibile essere competitivi su prodotti che vengono fatti anche in paesi con un basso costo del lavoro.
È indispensabile creare nuovi prodotti, o nuovi processi o nuovi servizi per continuare a vendere.
La mia professionalità è cresciuta perché ho spesso provato a fare, nel mio piccolo ambito, quello che nessuno stava ancora facendo e che nessuno vuole fare per paura dell’incerto.
Ovviamente ho anche sbagliato, chi prova sbaglia, prova e sbaglia ancora, ma dopo un po’ trova la strada giusta imparando dagli errori fatti. E la strada trovata dopo gli sbagli può essere molto interessante. Una strada che non si sarebbe mai aperta senza i tentativi e gli sbagli iniziali.
Spesso non basta una miglioria sola per avere il prodotto più competitivo possibile. Però quando fai 3 o 4 step evolutivi, allora hai creato un salto rispetto alla concorrenza per cui il tuo prodotto è nettamente diverso rispetto agli altri, e non sei facilmente raggiungibile.
A quel punto ti puoi permettere di “fare” un poco il mercato e non di subirlo.
– Si parla tanto di intelligenza artificiale e industry 4.0. Come stanno impattando le nuove tecnologie sui processi di produzione? Vedi cambiamenti significativi?
POCA AUTOMAZIONE. Vivo le mie giornate nelle aziende metalmeccaniche, di meccatronica, in società di engineering e vedo che, in generale, purtroppo il livello di innovazione nella programmazione e automazione è molto basso.
Queste attività vengono sicuramente fatte, ma molto meno di quello che si potrebbe con la tecnologia disponibile oggi a buon mercato e le competenze esistenti.
Sono piuttosto sorpreso dal relativamente basso livello di investimenti in informatica, automatizzazione e intelligenza artificiale.
Da questo punto di vista 20/25 anni fa vedevo più attività, che è andata affievolendosi. In altri paesi non è così, ad esempio nel nord Europa.
Ogni azienda – che faccia alimentari, cellulari, sedili, abbigliamento ecc – ha delle procedure che vanno ripetute tante volte. Si possono informatizzare e far elaborare i dati nel modo più veloce e competente esistente in azienda.
MANCANZA DI VISIONE. Su questo, nelle nostre aziende, spesso si fa molto meno di quello che si potrebbe. E’ un peccato perché con poco si potrebbe essere più efficienti e quindi più competitivi.
Penso che questo succeda perché uno fa un lavoro, ma spesso non ha la visione di dove andrà.
Per esempio, se uno fa scale, quando fa una scala non ha in testa che anche nei prossimi anni farà una scala… che avrà gli stessi problemi dei supporti, dei gradini ecc, gli stessi problemi che hanno tutte le scale. No, sembra sempre l’ultima scala!
Viviamo in una società con un approccio un po’ da disperati.
Viviamo come se ogni ordine fosse l’ultimo. Poi speriamo che arrivi un altro ordine, per fortuna spesso arriva e lo facciamo come se, a sua volta, fosse l’ultimo.
Come dice Don Giussani in un articolo che ho letto recentemente sul tuo blog: “Quello che facciamo è un cammino, ma facciamo fatica ad accettarlo e vorremmo arrivare subito. Perché nessuno accetta che la vita sia un cammino? Perché abbiamo tutti voglia di morire e poca voglia di vivere*”. Ecco, non è che preferiamo essere morti, ma quasi.
[* La cosa più difficile da capire nella vita – racconta Don Giussani – è la cosa più ovvia: che la vita è un cammino, che avviene nel tempo, attraverso accidenti, attraverso sentieri tortuosi, perché noi vorremmo tutto subito, e invece avviene tutto molto lentamente e con modi imprevedibili. E oggi nessuno sopporta che la vita sia un cammino…Per sentire che la vita è un cammino, per avere speranza, per dare speranza, e per sostenere il cammino dell’altro bisogna avere un cammino e avere una speranza”. “E perché nessuno accetta che la vita sia un cammino? Perché abbiamo tutti voglia di morire e poca voglia di vivere”. Il brano è tratto dal post: “Un luogo che educa alla bellezza” ]
Chi invece vuol vivere e ha un progetto, una visione, dice: “Bene, faccio un pezzo, ma ne dovrò fare altri 1.000! Allora mi organizzo, progetto, lavoro, perché non solo questo pezzo, ma anche i prossimi 999 riescano al meglio; e i soldi che investo adesso non mi pesano perché li recupererò abbondantemente se penso che ne ho altri 999 da fare”.
Se non lo faccio è perché penso che sia l’ultimo.
Troppo spesso gestiamo le nostre aziende come se stessimo chiudendo: è la stessa coerenza di quello che dice “tanto a fine anno chiudo”, ma così non creiamo competitività.
– Prima mi dicevi che non basta una miglioria sola per avere il prodotto più competitivo possibile, ma sono necessari diversi step evolutivi. Nella realtà quindi non esiste l’innovazione geniale che da un giorno all’altro può risolvere magicamente i problemi; possiamo dire che essere focalizzati solo sul presente blocca le possibilità di innovazione?
TEMPI LUNGHI. Sì, è così. Perché un prodotto sia più competitivo di altri servono una serie di modifiche migliorative una dopo l’altra, serve tempo, un progetto di lungo periodo.
Non basta una modifica sola per avere il prodotto più bello del mondo; però quando fai 7 o 8 modifiche, allora hai creato un salto rispetto la concorrenza per cui il tuo prodotto è nettamente diverso rispetto agli altri. Io questo l’ho sperimentato più volte nel corso degli anni.
Un esempio. In un prodotto costituito da tante componenti, l’obiettivo era quello di rendere il prodotto finale più leggero.
Ogni anno si è lavorato su una o due componenti, un anno si è fatto questo, l’anno dopo quest’altro; all’inizio i clienti quasi non percepivano la differenza, ma dopo 6/7 anni avevamo una prodotto che pesava il 15% in meno della concorrenza.
Avevamo alleggerito tanti componenti, ogni anno una piccola modifica quasi insignificante, ma quando sono state messe in fila sulla stessa linea abbiamo creato un prodotto evidentemente migliore degli altri.
Per fare questo, però, serve un minimo di visione, è necessario sapere dove uno vuole andare e poi ogni anno ci si va. Questo non lo vedo fare quasi più e mi preoccupa molto.
– Quindi mi confermi la mia impressione di formatore e consulente: nonostante si parli tanto di innovazione molte cose nel mondo del lavoro negli ultimi vent’anni non sono cambiate e anche tu dal tuo punto di vista di ingegnere mi confermi questa ipotesi.
FIERE E INNOVAZIONI. Pensando all’Italia, secondo me venti anni fa c’era molta di più la voglia di cambiare e fare innovazione.
Per esempio nelle fiere più importanti di settore ognuno arrivava con qualcosa di nuovo, con qualcosa che l’anno prima non aveva e andava lì anche con l’entusiasmo di presentare le proprie innovazioni, le cose che l’anno prima non c’erano, i vantaggi che davano l’esclusività e i brevetti.
Negli ultimi 10-15 anni questo modo di lavorare mi sembra si sia un poco affievolito, sempre in generale.
Sicuramente ci sono innovazioni tecnologiche e adeguamenti alle richieste del mercato, però mi sembra che in molti stand delle fiere si respiri un’aria un po’ stanca, poca voglia di essere in fiera, forse perché non si ha molto da raccontare.
Viviamo in tanti settori un mercato saturo, con clienti che non hanno più tanti soldi e che hanno già tutto e per questi due motivi sarebbero disposti a comprare solo qualcosa che sarebbe nuovo e che porta vantaggi. E molte aziende presentano prodotti non nuovi, che non portano vantaggi e che, di conseguenza, non è facile vendere.
Vedo questo soprattutto in Europa, in altri mercati la situazione è diversa.
Negli Stati Uniti ci sono percentualmente più aziende che investono in nuovi prodotti e servizi, più ancora in Asia, in particolare Cina e India, dove si investono tanti soldi per avere l’anno successivo cose che non si sono mai avute, sia come prodotto, sia come organizzazione, sia come mercato.
– Da quello che mi dici quindi il problema non è solo italiano, ma europeo. Vedi problemi simili anche in Germania?
MIGLIORAMENTO DI SOLUZIONI GIA’ CONOSCIUTE. Secondo me si sono un poco seduti anche loro, anche se sembra azzardato dirlo.
Con questo non voglio certo dire che aziende come la Siemens o la BMW non stiano investendo in innovazione! Come sempre le aziende tedesche sono molto attente a destinare metodicamente parte del fatturato in sviluppo e questo è molto apprezzabile, oltre che utile.
Mi sembra però di vedere che si investa più volentieri nel miglioramento di soluzioni già conosciute piuttosto che veramente innovative.
Praticamente stanno comportandosi come quelli che, quando sono stati realizzati i primi motori a scoppio, si rifiutavano di percorrere questa nuova strada e hanno sviluppato al massimo la tecnologia esistente che era quella della carrozza trainata da cavalli, fino a metterne tantissimi!
Nel breve termine è un approccio che dà qualche frutto ma ovviamente è perdente nel medio termine.
– Da quello che mi dici, quindi, manca il coraggio. Si potrebbero fare tante cose nuove, abbiamo tutte le potenzialità per poter fare un grande salto, per progettare nuovi prodotti e servizi…
CORAGGIO. Sì, in teoria le cose si potrebbero fare. Quei pochi che le vogliono fare, le fanno.
Bisogna anche riconoscere che servono le condizioni per sviluppare prodotti nuovi, tra queste sicuramente le competenze ma, soprattutto, l’organizzazione opportuna e una visione a medio-lungo termine.
Servono manager e tecnici in grado di lavorare su quello che non esiste, occorre essere formati per lavorare in questa ottica: per quanto possa essere appassionante, non è certo confortevole.
Quando Carlo Rubbia prese il premio Nobel per la Fisica disse:
“Sono molto contento e stasera mi godo il fatto di aver ricevuto il premio Nobel, il massimo riconoscimento possibile. Da domani, però, mi devo scordare di essere il premio Nobel, altrimenti mi sentirei nelle condizioni di non poter sbagliare. Come fa a sbagliare un premio Nobel? Ma so che non se non posso sbagliare non combinerò più niente, per cui da domani mi devo scordare di essere un premio Nobel!”.
E’ una frase che mi colpì molto.
Questo vale anche per le imprese. Quando ti sei costruito un nome, un brand, hai paura di innovare e perdere quello che hai costruito. Ma dal momento che hai paura di perderlo, lo perdi.
– Esempi di aziende innovative, che si sono prese dei rischi?
SPERANZA. Premetto che penso che il maggior rischio sia quello di non prendersi il rischio di fare muovere la propria azienda e tenerla ferma.
Qui in Europa è più facile che siano le piccole aziende ad innovare per davvero, anche se non mancano sicuramente le aziende già grandi e affermate.
Se uno fa le cose fatte bene, se uno prende l’impegno (preferisco chiamarlo così più che “rischio”) di mettere a punto cose che nessuno ha mai sviluppato, ci sono ottimi margini di crescita.
Per fortuna vedo in giro diversi esempi, anche nelle città di periferia, che si sono focalizzate in qualcosa di molto specifico, anche banale, ma con un approccio di eccellenza, e stanno lavorando tanto. Possono tenere buoni margini perché non entrano più in competizione con nessuno.
Ovviamente a breve servirà un altro step evolutivo per garantire il perdurare di questa situazione.
Einstein diceva che la misura dell’intelligenza risiede nella capacità di cambiare quando è necessario. Direi che sia condivisibile e, al momento, mi sembra necessario!
POST SCRIPTUM
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