Il margine/ora (seconda parte): un cambio gomme da Formula 1

Con il margine/ora anche la ricerca della competitività, cambia radicalmente i suoi riferimenti.

Fino a ieri, l’unica strada percorribile per arrivare a migliorare la remuneratività di un prodotto, non potendo alzare il prezzo, poteva essere solo quella di una riduzione dei costi.

D’ora innanzi, abbiamo invece a disposizione un’altra possibilità, un nuova via: aumentare la produzione oraria! Anche se in certe situazioni potrà non essere semplice, mi sento di poter affermare che si tratta di un obiettivo senz’altro più facile da raggiungere rispetto al precedente.

Per quanto chiaro sia il concetto, nella sua semplicità, vorrei brevemente approfondire il concetto di – incremento della produzione – poiché so molto bene quanto delicato sia l’argomento, quanto elevato il rischio di fraintendimenti o errate interpretazioni.

Per rendere assolutamente chiaro il concetto, proviamo a fare un esempio, chiaramente estremo ma ci aiuta a comprendere il problema.

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Definizione di imprenditore

Riporto un post scritto da Francesco Zanotti nel 2015 che a mio avviso riporta una delle migliori descrizioni del mestiere dell’imprenditore (più efficace di quella di Shumpeter).

E’ tratta da un testo di un matematico originalissimo, scomparso nel 2014 (Alexander Grothendieck) citata nel capitolo “Il potere dell’innocenza” di Luca Barbieri Viale e Claudio Bartocci nel libro “Matematica ribelle” edito dal Corriere della Sera.

In grasseto gli incisi in grassetto di F. Zanotti che fanno riferimento al mestiere dell’imprenditore.

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Sport, innovazione e bottiglie in plastica

E’ molto comune la metafora dello sport per descrivere il mondo dell’impresa.

Qualche giorno fa, per esempio, un articolo di Guido Romeo su Il Sole 24 ORE sottolineava il parallelismo fra giocare a basket e creare una start up .

Molto comuni sono anche i paralleli con il canottaggio o il rugby per sottolineare l’importanza del gioco di squadra o con gli scacchi per l’importanza della tattica e della strategia.

Chiaramente ogni metafora può aiutare a mettere in luce determinati aspetti e lo sport è sicuramente una palestra importante per imparare a dare il massimo e aver rispetto di compagni e avversari; a mio avviso, però, le metafore del mondo dello sport hanno due grossi limiti che rischiano di non far capire la specificità del mondo imprenditoriale.

Perché?

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Facciamo innovazione? Intervista a Enrico Pezzi, ingegnere e consulente

Enrico Pezzi, è un ingegnere meccanico che da quasi trent’anni lavora allo sviluppo di nuovi progetti meccanici e meccatronici: in particolare ha gestito (e continua a gestire) progetti per il settore aerospaziale, per la Formula 1, per componenti di auto, moto, biciclette e veicoli in genere.

Dalla sua esperienza emerge come l’innovazione di cui tanto si parla, non sia sempre al centro delle preoccupazioni di tante nostre imprese.

Anzi, troppo spesso nelle aziende si respira un’aria stanca, un po’ da sconfitti, dove ognuno preferisce rimanere fermo per non rischiare quello che ha.

Un’analisi lucida, spietata, ma estremamente concreta della crisi contemporanea.

In tanti settori – sottolinea Pezzi – abbiamo un mercato saturo, con clienti che non hanno più tanti soldi e che hanno già tutto e per questi due motivi sono disposti a comprare solo qualcosa di nuovo e che porta effettivi vantaggi. E abbiamo diverse aziende che presentano prodotti non nuovi, che non portano vantaggi e che si lamentano che non vendono.

Per fortuna ci sono le eccezioni e qualche speranza in più nasce da nuove imprese, anche se spesso ancora piccole.

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Parole vuote: “Competere”​

Una delle parole più pericolose e che invito a non usare è “competizione/competitività”.

Perché?

Perché gli studi strategici sulle imprese ci dicono che la parola “competizione” porta alla lunga alla distruzione dell’impresa, perché porta a fare sempre le stesse cose, solo leggermente diverse e con margini sempre più ridotti.

Se, invece, con competizione si intende “inventare cose nuove e uniche” e quindi non avere praticamente competitors va benissimo, però è strano, o meglio è pericoloso chiamare con la stessa parola cose tanto diverse.

“Ostinarsi a competere, quando si deve cambiare il mondo, porta a quella grande confusione collettiva che si chiama crisi”, scriveva Zanotti in un articolo illuminante del 2011.

Questo concetto è stato ripreso anche da Larry Page (co-fondatore di Google) in una intervista a Wired del 2013:

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Kodak inventò la fotocamera digitale già nel 1973, ma decise di non produrla

Questa è una di quelle storie da film che ogni tanto emergono dal mondo tech e raccontano di uomini e macchine, visioni e cecità, innovazioni e destini che cambiano.

Si sa che Kodak andò in crisi con l’avvento della macchina digitale; meno famoso è il fatto che fu la stessa Kodak a inventarla nel 1973, ma decise di tenerla nascosta per non mettere in discussione il business delle pellicole.

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Superpolli? No grazie. Archiviamo le gerarchie lavorative.

Spesso la gestione delle imprese adotta il cosiddetto “modello del superpollo“, un sistema incentrato su impiegati superstar che si distinguono per prestazioni migliori rispetto agli altri.

Tuttavia, non è questo il principio-guida dei gruppi di lavoro che conseguono i risultati migliori.

Questo video, con uno stile davvero accativante, è un ripensamento radicale di ciò che spinge l’uomo a dare il meglio di sé sul lavoro e del significato della parola ‘leader’.

Margaret Heffernan dice cose che dovrebbero essere banali. Invece sono, ancora, rivoluzionarie. Sempre più rivoluzionarie. Perché il mondo, e le imprese, sembra che continuino a privilegiare i superpolli. Con le conseguenze che vediamo ogni giorno.

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Un premio per chi cerca di inventarsi un nuovo mondo

Una bellissima analisi di Luciano Martinoli cerca di comprendere come mai in borsa aziende che fanno soldi vedono l’azione scendere, chi ne perde e si indebita e la vede salire.

Il punto di vista da accogliere per comprendere questi fenomeni è l’esistenza, e la loro qualità, dei progetti di sviluppo.

Il mercato, l’economia, la società intera chiede alle aziende che hanno creato questo mondo – che sta morendo di una fisiologica perdita di senso (nulla è per sempre) – di inventarne un altro.

E la finanza premia chi cerca di inventarsi un nuovo mondo: https://lnkd.in/gbVi3SF .

Passare dai fatti alle parole

Molto spesso la lamentela più comune verso le classi dirigenti (imprenditoriali e non) è che faticano a passare dalle parole ai fatti. Il classico luogo comune dice che “predicano bene e razzolano male” o che “sono bravi solo a parole” ecc.

Sempre più spesso, invece, mi rendo conto che i fatti che accadono e la crisi di tante imprese (e della politica) è strettamente connessa proprio alle parole usate. I fatti cioè sono legittima conseguenza delle parole e del linguaggio usato: non c’è alcuno scarto.

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Gli albergatori e la maledizione del radiale

Qualche giorno fa Luciano Martinoli ha pubblicato un bellissimo articolo intitolato “La maledizione del radiale” a dimostrazione della valenza strumentale della tecnologia, troppo spesso spacciata come risolutrice di tutti i mali aziendali (Industry 4.0. digitalizzazione delle banche, ecc.).

Cos’è la maledizione del radiale di cui parla Martinoli?

Il radiale è un pneumatico, inventato dalla Michelin, che durava più del doppio di quelli precedenti. Ma non è che la gente ha cambiato le abitudini di guida e si è messa a fare più km. Il risultato è che questa invenzione, in pochi anni, ha messo in crisi il settore dei pneumatici perché le vendite sono crollate.

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