Ho ritrovato questi “consigli” in una intervista che feci nel 2008 a Fabio Pipinato, in occasione dell’uscita del libro “Cooperazione: micro suggerimenti per essere / saper essere / saper fare Solidarietà Internazionale”?
Nonostante siano passati 9 anni, i temi che affronta sono sempre attuali e illuminano la nostra relazione con l’altro – sia esso vicino, collega, superiore, cliente – smontando luoghi comuni e usando parole nuove, spiazzanti, vere per parlare della identità, del conflitto, dell’ascolto, della scelta delle priorità, della progettazione, della formazione.
SALVARE L’ALTRO. Caro Fabio, entriamo nel dettaglio su alcuni temi riguardanti la cooperazione e il conflitto, partendo da quello che potrebbe essere il cooperante ideale.
Vi sono ancora molti cooperanti che sono portatori di soluzioni e non riusciamo talvolta a liberarci da quel complesso di “voler salvare l’altro”. Abbiamo sempre le istruzioni pronte per il territorio altrui. Invece noi crediamo fortemente che le soluzioni, se ve ne sono, debbano nascere in primis dai territori, dai saperi dei territori talvolta con l’aiuto esterno.
Credo che l’analisi, tra l’altro spietata, che viene fatta sulla cooperazione di tipo governativo della Prima Repubblica, parte proprio da questo.
Abbiamo esportato mietitrebbie in Mozambico, quando il Mozambico è collinare e le mietitrebbia andavano bene per una mietitura in Canada o nella Pianura Padana dove il terreno è piano. Il 90% degli aiuti governativi sono “legati” alle industrie del paese donatore.
Vi sono molti errori di questo tipo. Questi sono molto banali perché tecnici, ma ve ne sono altri errori di tipo concettuale dove la forma mentis del cooperante a forte identità, tende ad imporre una modalità anche alla controparte che non ha la nostra storia e che ha fatto tutt’altri percorsi.
IDENTITA’ DEBIOLE E FORTE. Torniamo un attimo sul tema dell’identità. Tu nel libro dici che la non-identità aiuta a porsi in relazione e in una posizione di ascolto. Ma non avere una identità, può creare anche un forte spaesamento in chi è lì e non sa chi è?
Certo. Il riconoscerci ci aiuta a sapere con chi abbiamo a che fare, cosa vogliamo, cosa cerchiamo e capire perché siamo lì. Parlo di forte identità come modalità di imposizione della propria identità. Io ho visto anche soggetti a identità molto debole…
Ecco, non-identità non significa identità debole.
No, certo. Parlo di soggetti con identità debole nel senso che all’ascolto pieno della controparte, si sono trovati veramente in condizioni di spaesamento senza riuscire a portare a termine un progetto che avesse determinati obiettivi, vivendo alla giornata.
E questo lo si vede in molti giovani volontari alla ricerca di un mondo antico, selvaggio (nel senso di immerso nella foresta), romantico, privo di conflitti. Che non esiste. A differenza del volontario ipermotorizzato se ne va a piedi tra la gente. Magari scalzo per mimetizzarsi ed al primo mese ha problemi con le pulci penetranti.
L’identità forte la si ritrova in particolare in quelle persone che valicano i mari durante le vacanze estive, mettendo a disposizione le proprie ferie. Cuore grande e scolarità bassa. Vi sono molti muratori, idraulici, artigiani ecc che vanno, costruiscono e tornano.
Essi sanno come si arriva alla soluzione tecnica dei problemi. Si vantano delle proprie capacità e non vivono, di sera, mescolati con la gente del posto ma parlano a gran voce delle avventure e scoperte del giorno e delle incomprensioni con i locali.
Ascoltano poco anche perché, spesso, non conoscono né l’idioma locale e tantomeno le lingue internazionali. Quando non alzano la voce, scandiscono. Vestono calzoncini corti e fotografano ogni cosa o persona senza porsi il problema se possono farlo o meno.
Sono contrapposti alla debole identità che si trova più nei giovani, che fanno un’esperienza di carattere annuale, più nelle periferie delle grandi città dei sud del mondo che in zone rurali ove internet è un sogno.
Essi cercano di entrare in contatto con la gente locale, si mescolano volentieri e talvolta irresponsabilmente. Pur con una forte adattabilità alla situazione di vita locale si denota un’ incapacità di perseguire un determinato obiettivo, progetto o compito.
Per l’appunto sanno “chi non sono” piuttosto “chi sono”. In ambedue queste tipologie – l’identità forte e quella debole – riscontriamo un comune denominatore che è la carenza di formazione a monte. Prima di partire la forte identità afferma “so già come si fa”, mentre la debole dice “imparerò lì come si sta”.
Bisognerebbe avere un po’ di umiltà e riuscire a fare percorsi di formazione – ve ne sono a vari livelli – in modo da prevenire gli errori più comuni, perché ormai c’è una letteratura piuttosto ampia che ci aiuterebbe a prevenire molti abbagli nell’essere, fare e tentare la cooperazione.
Bisognerebbe, almeno per il cooperante internazionale che andrà all’estero per parecchi mesi, vi fosse l’obbligo di formazione da non intendersi come l’ “apprendimento della lingua”.
Vi sono anche le modalità di comportamento, i tempi del saluto, i tempi dell’accoglienza, che sono cose che cambiano di paese in paese. Soprattutto per quanto riguarda il rispetto dell’autorità ne ho viste di tutti i colori.
PAURA DEL CONFLITTO E MITOLOGIA BUONISTA. Nel libro scrivi che il cooperante deve cercare di fare i conti con una serie di conflitti interni. Scrivi che deve “rendersi inutile”, deve “non fare” vincendo la tentazione del “fare”, poi scrivi che la cooperazione deve essere “seconda” e non “prima”, chi si occupa di cooperazione deve quindi imparare a vincere se stesso.
Si nota sia negli individui a forte che a debole identità una paura del conflitto. Mentre è assolutamente necessario fare i conti sia con il conflitto intrapsichico e quello naturale che nasce dall’incontro fra due culture completamente diverse.
Questa difficoltà ad accedere al conflitto proviene a livello antropologico da una mistificazione che tarda a morire, che è quella della controparte povera e quindi buona, perché spesso si fonda su una base rurale, capace di comunità ecc.
In realtà è vero il contrario. Povertà significa violenza.
Si vanno ad abitare iperluoghi, non non-luoghi, dove le controparti hanno strutture familistiche, di clan, mafiose, forti, con identità indiscusse ed indiscutibili, che non rispettano, a volte, i diritti umani e per cui ci si confronta inevitabilmente sia con il conflitto intrapsichico sia con il conflitto con la controparte.
Allenarsi a questo, conoscere le modalità, fare del role-play su questo prima di partire credo che sia il minimo, perché descrivere la Cooperazione Internazionale senza conflittualità come fanno moltissimi per motivi di fund raising, alimentando pietismo e buonismo crea problemi e pericoli.
La relazione è sempre difficile. È come la relazione che abbiamo noi con gli immigrati a casa nostra: descriverla come idilliaca come fanno alcune organizzazioni che lavorano per gli immigrati, o demonizzarla da parte delle altre organizzazioni politiche, non aiuta nessuno.
È una relazione difficilissima, però è anche inevitabile, perché la nostra economia come il nostro welfare è sorretto anche dagli immigrati. Anche da quelli che a nostro avviso non sanno comportarsi civilmente. Per cui tutto passa attraverso un allenamento continuo, una formazione continua alla relazione e nell’evolvere con modalità intelligenti il conflitto.
Però ci scontriamo quotidianamente con una generosità che è ipovedente, perché non guarda a queste difficoltà, ma guarda la realtà in modo fantastico, irreale; una realtà che anche al ritorno i patria viene narrata, con tanto di diapositive mute, in modo idealizzato.
Ci sono volontari che partono per costruire un qualcosina in Uganda e poi qui raccontano l’amicizia, l’accoglienza di queste genti, però in realtà magari non si conosce la lingua, non si è compreso il conflitto tribale, non si è chiesto loro di cosa c’era bisogno e di cosa non c’era bisogno, non si è avviato, quindi, un confronto profondo che solo il lungo periodo di permanenza ci permette, solo in parte, di fare in quanto rimaniamo stranieri ed estranei.
Con questo non si vuole demonizzare la forte generosità della nostra gente, per l’amor del cielo, ma si vuole mettere in allerta, per prevenire gli errori più comuni che nel breve periodo fanno relazionare i volontari per lo più con i ruffiani del luogo bravissimi a spillar denaro anziché con la gente comune.
EGOISMO. Contro questa mitologia “buonista”, mi avevano colpito alcune parole che inserisci nel libro e che spesso non si associano al tema della cooperazione e mi piacerebbe un tuo commento in proposito. Scrivi, per esempio che la cooperazione deve essere “egoista”, in che senso?
Abbiamo molto da imparare anche dai diversi sud del mondo. E per cui non ci aiuta andare con un atteggiamento dove io ho il sapere e porto la soluzione.
Non possiamo andare senza prendere atto che la nostra società è la società dell’immunitas, anziché della communitas, dove noi non vogliamo il contatto nemmeno nel giroscale con il vicino dirimpettaio, e cerchiamo di uscire in modo da non incontrare Tizio e Caio, facendo una fatica enorme solo a salutare quello della porta accanto!
Ho avuto l’esperienza in paesi africani dove ci si immerge dentro la comunità, si sente la forza dell’umano. La comunità ti abbraccia, ti avvolge, ti fa proprio. E io mi dico: “È per via egoistica, perché penso al mio ego, al mio star bene, che ho bisogno di questa comunità e voglio portar via questo confronto, avere questa esperienza”.
Ed ho bisogno io, non solo come singolo, ma abbiamo bisogno anche noi come comunità del nord.
L’altro è fatica. Abbassiamo lo sguardo all’incrocio. Stiamo perdendo umanità, occasioni d’incontro, capacità di relazione. L’asimmetria di uno sguardo dall’alto al basso tipico di chi impone la verità con la forza o di chi fa la carità ci ha reso ipovedenti.
O guardiamo al cielo in attesa di verità trascendentali o guardiamo in basso perché la relazione tra pari, orizzontale, bidirezionale è faticosa.
Per un recupero delle buone relazioni è importante che il nord frequenti sempre più il sud. A partire dal sud che sta vicino casa. Facciamolo almeno per egoismo, perché vogliamo bene a noi stessi, per recuperare le relazioni, i valori e l’umanità di cui le generazioni che ci hanno preceduto erano capaci.
Quindi, se proprio si vuol partire, andiamo con meno buonismo e più egoismo. La cooperazione è bi-direzionale o non è. Lo dice la terminologia stessa.
In quanto cooperante, burocrate, organizzato, funzionale potrei veicolare alcuni aiuti, anche finanziari in cambio di altrettante ricchezze, saperi, opportunità.
Ho avuto la fortuna di presiedere una cooperativa di commercio equo e solidale, per tre anni, ed ho visto la ricchezza straordinaria di queste comunità di micro-produttori, nostre partner.
Noi forse abbiamo migliori maglioni e migliori vestiti fatti nelle catene post fordiste cinesi. Le nostre artigiane boliviane mentre tessono raccontano delle storie che vengono riprodotte nel design dell’intreccio.
Esiste una ricchezza straordinaria di cultura che possiamo portar via e di cui possiamo appropriarci.
Se non vi fosse questa spinta anche di carattere egoistico – cioè “facciamo nostri questi saperi e vendiamoli all’occidente, perché l’occidente ne ha bisogno, ha bisogno dell’artigianato puro e non solo della Cina” – non camperebbe il circuito del commercio equo e solidale, e stiamo parlando di 500 partite Iva in tutta Italia.
Sto parlando proprio in termini di business. Non vi sarebbero centinaia di persone impiegate a riguardo. È per questo che ho posto l’accento sull’egoismo.
ESSERE IMPURI. Un’altra parola che colpisce è “impura”. Tu scrivi che il purismo come il pauperismo è tipico dei paesi industrializzati.
Sì, a riguardo ne ho viste di tutti i colori. Ho trovato coopereanti in Kenia, quelli pauperistici che dicono: “Non comprerò né Coca-Cola e né Nestlè” mettendo all’indice chi abita da decenni quei territori e non ha alternativa.
Il discernere una bibita o un caffè da un altro può esser fatto a Nairobi, in Italia ma non in paesi che non offrono altre alternative. Anche Alex Zanotelli a Korogocho si beveva il suo buon Nescafè. Se scatto una fotografia e dico: “Ecco, Alex Zanotelli appoggia la multinazionale Nestlè che viola i diritti umani come riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità” potrei fare uno scoop.
Ma se invece di guardare la fotografia, guardiamo il film allora vediamo che evidentemente a Korogocho altri tipi di caffè non esistono.
Vivaddio se il buon Alex si beve una volta al giorno una tazza di caffè con il Nescafè, non dobbiamo certo puntare il dito.
E, purtroppo, viviamo in un mondo ove molti hanno il dito ingessato e continuamente puntato.
Questo è solo un esempio di un prodotto, ma il purismo è una mentalità, cioè non scendere mai a compromessi. Ho avuto occasione di lavorare, mio malgrado, anche in situazioni di emergenza, campi profughi Burundesi, in Ruanda ecc.
Le situazioni del momento ti portano continuamente a scendere a compromessi per far passare gli aiuti, nello sdoganare mulini, nel far arrivare acqua potabile. Il purista che non cercherà di facilitare le cose avrà vita dura.
Ricordo un funzionario che mi disse: “la guerra non è solo un business per gli occidentali”. Parole durissime ma che racchiudevano la consapevolezza che le armi arrivavano anche dall’Italia e che se avevamo bisogno di una firma per accelerare un corridoio umanitario lui era lì pronto a fare il suo dovere e qualcosa in più.
Siamo in casa d’altri, per cui il compromesso va fatto; naturalmente al livello più alto possibile. Non dobbiamo scandalizzarci, ma in situazioni di emergenza con campi profughi con 30 morti al giorni e soprattutto bambini, sono sceso a compromessi. Anche volentieri.
PRENDERE DECISIONI. Volevo tornare un attimo sulla scelta delle priorità. Prima dicevi che si utilizza il metodo democratico, ma in che senso? Si ascolta e si decide a maggioranza?
Intanto bisogna ascoltare profondamente la comunità. Coloro che hanno agito per decenni su quei territori. Nella comunità si ascoltano tutti i portatori d’interessi (stakeholders), poi anche tutte le organizzazioni non governative che hanno esperienza, i diversi donatori che sono già presenti.
Si comprendono i perché degli errori o dei successi. Dopo si cerca di scegliere assieme le diverse priorità. Badiamo bene che attraverso questo metodo si può anche arrivare a delle progettualità che sono catastrofiche.
E per questo bisogna iniziare un percorso per spiegare le nostre ragioni e perché non possiamo sostenere questo o quel progetto.
Faccio un esempio. In Ruanda mi è capitato di lavorare per il governo ruandese per l’apertura della prima scuola di fisioterapia del paese. Le nostre controparti, i fisioterapisti ruandesi, tra l’altro piuttosto in gamba, ci chiedevano all’interno della scuola, una piscina termale con idromassaggio. È evidente che una piscina termale con idromassaggio nella capitale del Ruanda consuma non solo l’energia, ma una quantità d’acqua che è pari ad una baraccopoli.
Il fatto è che questi colleghi fisioterapisti ruandesi avevano studiato in Belgio e per loro era normale avere una piscina termale che non esiste nei nostri ospedali italiani. L’ ascolto paziente, democratico, condiviso, partecipato non necessariamente conduce alla migliore soluzione per quel territorio.
La piscina non era certo la cosa più utile che poteva esserci per quella scuola in quel momento storico ove non esistevano nemmeno le attrezzature intermedie per i bambini cerebrolesi. Bisogna accompagnare l’ascolto con degli studi in loco sui costi e benefici.
Ciò che si fa per l’industria, bisogna farlo anche per la cooperazione. I costi e benefici per una piscina sono x, mentre i costi e benefici per i tutori per i bambini disabili sono y, ma ne beneficeranno un numero maggiore di persone. E basandoci su questi numeri possiamo ridefinire le priorità.
Il mito, che colpisce soprattutto i paesi più poveri, di un occidente ipertecnologico dal modello indiscusso non ci aiuta. Paradossalmente nei sud non si può nemmeno accennare alla “decrescita”, concetto che timidamente sta entrando in qualche nostra Università del nord.
L’ l’hi-tech, con tutto il suo fascino non è la soluzione per lo sviluppo e somiglia molto agli specchietti che gli spagnoli davano agli indios in cambio d’oro.
Trattasi di strumenti che potrebbero solo in parte aiutare l’evoluzione autoctona dei propri saperi.
In un mondo villaggio potremo beneficiare tutti dell’aumento di un sapere non omologato. Le multinazionali farmaceutiche lo hanno compreso da tempo.
Nella Repubblica Centroafricana, 30 anni fa ho incontrato farmacisti di una nota casa farmaceutica in terra Bantu che si sono fatti 80 km a piedi per raggiungere villaggi pigmei che avevano delle proprie farmacie di erbe. Parliamo di centinaia di ciotole con altrettante erbe diverse.
I pigmei facevano errori grossolani nella posologia, ma le erbe avevano effetti sulla salute piuttosto interessanti. I dottori studiavano i saperi per capire e capirne il principio attivo. Li portavano a casa e li brevettavano. Sono “egoisti”? Certo. Sono case farmaceutiche che vanno ad appropriarsi di saperi di civiltà completamente altre e li fanno propri. Hanno tutto l’interesse di valorizzazione e non omologare i saperi altrui.
É paradossale ma talvolta nel profit si trovano atteggiamenti contrastanti. L’omologazione spietata nei centri commerciali delle capitali del sud e la valorizzazione delle diversità nelle periferie.
IL DISTACCO. Un’ultima cosa su un’altra conflittualità che spesso non emerge parlando di cooperazione. Tu scrivi che “cooperare è fare una continua esperienza di distacco” definendo la cooperazione “triste” e “infelice”.
Anche il tecnico più asettico che arriva per uno studio di fattibilità per un mese in un luogo – appunto perché arriva dai paesi dell’immunitas del nord del mondo, dove in ascensore si preferisce guardare le proprie chiavi di casa anziché il volto del vicino – e si cala nei paesi del sud, rimane coinvolto emotivamente.
Tant’è che il distacco continuo fa soffrire.
Perdiamo ogni volta un pezzo di noi che è rimasto lì. Io ho fatto diverse professioni in diversi luoghi e qualsiasi luogo mi ha arricchito. Ho lasciato una parte di me nei paesi dove ero presente.
Alcune volte questo succede anche in modo tragico, come nel caso del Ruanda, per esempio, dove sono stato evacuato causa genocidio: nel vedere che io dovevo lasciare le mie controparti, le persone che mi erano accanto, ho sofferto tantissimo e ho lasciato parte di me stesso.
Come ho sofferto nel lasciare, dopo tre anni che non tornavo in Italia, il Kenya dove si sono create relazioni profonde. Per cui il cooperante deve porsi in quest’ottica. E soprattutto deve saper tornare in patria. Molti non sono riusciti o non hanno saputo tornare.
E questo cosa implica?
Implica una difficoltà per la controparte a diventare autonoma, con la conseguenza che il rapporto permane asimmetrico, sbilanciato nei confronti di chi detiene competenze e denaro: questo è ciò che comporta una non-capacità o impossibilità di trasferire il progetto ad altri che è spesso un’ incapacità di pensarsi inutile e soprattutto una non-volontà di distaccarsi.
E il non fare esperienza di distacco, è negativo per tutte e due le parti, sia per il cooperante che per la controparte?
Sì, perché la controparte non cresce se non si assume la responsabilità del progetto.
Vi sono molte modalità affinché il distacco non sia netto. V’è un primo passaggio di consegne in modo che il cooperante si senta completamente inutile. Poi ci dovrebbe essere un tempo in cui il cooperante abita il territorio ma non lavora nei progetti, in modo tale da favorire la controparte nel portarli avanti in modo autonomo. Il follow up avviene periodicamente.
L’obiettivo, per il cooperante, è abituarsi all’inutilità.