Un luogo che educa alla bellezza

Io penso che questo sia stato il momento, dal punto di vista professionale, più importante della mia vita, perché senza questa domanda uno non è madre, non è padre, non è educatore. D’improvviso la testa mi fu attraversata da questa domanda….

Questo brano è tratto dall’affascinante testimonianza di Mariella Carlotti in un incontro dal titolo “La scuola: un luogo che educa alla Bellezza”.

Mi sono imbattuto per caso in questo bellissimo testo di cui consiglio vivamente la lettura.

Un testo consigliato non solo per tutti coloro che si occupano di formazione, ma anche per tutti coloro che hanno un ruolo decisionale e di responsabilità, in cui la relazione con l’altro fa parte del proprio lavoro; in altre parole per tutti coloro che si chiedono come governare i comportamenti, o per chi almeno una volta nella vita si è chiesto: “Ma come faccio a cambiare l’altro?”.

Perché il problema educativo – continua Carlotti – normalmente può avere due domande: “Come faccio a cambiarlo?” e “Come faccio a cambiare?”. Si educa solo nel secondo caso.

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Leadership: non c’è rispetto, senza conflitto

Questa riflessione prende spunto da un bell’articolo di Riccardo Bordignon sulla leadership.

Bordignon scrive una frase, per niente banale, che mi piace riprendere e approfondire: “La leadership ha a che fare con il rispetto, con l’accettazione della diversità dell’altro e la consapevolezza che rappresenta una ricchezza, ha a che fare con la cultura e la crescita personale”.

Cosa significa che la leadership ha a che fare con il rispetto? Che cos’è il rispetto?

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Due storie di fallimento. Perché cambiare è così difficile anche quando i vantaggi sono evidenti.

FALLIMENTO 1 . La storia seguente è ripresa quasi integralmente dall’articolo “La mia storia di fallimento preferita” di Mirco Di Porzio.

Il Dottor Semmelweis nel 1846 lavorava all’ospedale generale di Vienna. In quel periodo la febbre puerperale faceva stragi: la percentuale di decessi delle donne che partorivano era intorno all’11%.

Un medico molto amico del Dott. Semmelweis stava praticando un’autopsia ad una donna deceduta per cercare di studiare il fenomeno, quando si tagliò leggermente con un bisturi sporco. Nel giro di qualche giorno morì, presentando sintomi simili a quelli della donna.

A questo punto al Dottor Semmelweis venne un’idea: “Ma non è che ci sono delle cosine invisibili che si trasferiscono con il contatto e causano la malattia?”.

Così impose il lavaggio igienico delle mani a chi dovesse toccare le donne che partorivano. Già che c’era, impose anche il cambio delle lenzuola.

Nel giro di 2 anni la percentuale di decessi scese dal 11% alll’1%.

Ma ecco l’errore di Semmelweis: non aveva curato i rapporti con la comunità intorno a lui. La qualità del suo lavoro avrebbe dovuto parlare da sola. Ma non funziona mai così.

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La cooperazione deve essere impura, egoista, triste, e deve rendersi inutile.

Ho ritrovato questi “consigli” in una intervista che feci nel 2008 a Fabio Pipinato, in occasione dell’uscita del libro “Cooperazione: micro suggerimenti per essere / saper essere / saper fare Solidarietà Internazionale”?

Nonostante siano passati 9 anni, i temi che affronta sono sempre attuali e illuminano la nostra relazione con l’altro – sia esso vicino, collega, superiore, cliente – smontando luoghi comuni e usando parole nuove, spiazzanti, vere per parlare della identità, del conflitto, dell’ascolto, della scelta delle priorità, della progettazione, della formazione.

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