Facciamo innovazione? Intervista a Enrico Pezzi, ingegnere e consulente

Enrico Pezzi, è un ingegnere meccanico che da quasi trent’anni lavora allo sviluppo di nuovi progetti meccanici e meccatronici: in particolare ha gestito (e continua a gestire) progetti per il settore aerospaziale, per la Formula 1, per componenti di auto, moto, biciclette e veicoli in genere.

Dalla sua esperienza emerge come l’innovazione di cui tanto si parla, non sia sempre al centro delle preoccupazioni di tante nostre imprese.

Anzi, troppo spesso nelle aziende si respira un’aria stanca, un po’ da sconfitti, dove ognuno preferisce rimanere fermo per non rischiare quello che ha.

Un’analisi lucida, spietata, ma estremamente concreta della crisi contemporanea.

In tanti settori – sottolinea Pezzi – abbiamo un mercato saturo, con clienti che non hanno più tanti soldi e che hanno già tutto e per questi due motivi sono disposti a comprare solo qualcosa di nuovo e che porta effettivi vantaggi. E abbiamo diverse aziende che presentano prodotti non nuovi, che non portano vantaggi e che si lamentano che non vendono.

Per fortuna ci sono le eccezioni e qualche speranza in più nasce da nuove imprese, anche se spesso ancora piccole.

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Quello che i soldi non possono comprare. Una riflessione sul sistema degli incentivi.

Ho speso gli ultimi due anni a considerare la scienza della motivazione umana; in particolare, la dinamica delle motivazioni esterne e di quelle interne e vi dichiaro che siamo in alto mare

Se prendete la scienza, c’è un disallineamento tra ciò che la scienza sa e ciò che le imprese fanno”.

Queste sono le parole di Dan Pink in una conferenza TEDX del 2009: “Sulla sorprendente scienza della motivazione”.

“Ciò che è allarmante”, continua Pink, “è che il sistema operativo del nostro mercato – pensate al complesso di assunti e di protocolli alla base del nostro mercato, a come motiviamo la gente – è costruito integralmente su motivatori esterni, il bastone e la carota. 

La cosa poteva andare bene per molti tipi di attività del 20° secolo, ma per le attività del 21° secolo, questo approccio meccanicistico di ricompensa e punizione non funziona. E tante volte produce danni.

Vediamo perchè.

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Il paradosso del Giappone: debito enorme, rischi minimi e…

IL PARADOSSO. Il livello del debito pubblico in Giappone non ha precedenti, scrive Marcello Minenna in un articolo del Sole 24 ore del 24 dicembre 2018.

 Pari a due volte e mezzo di quanto l’intera economia produce ogni anno – continua l’articoloè di gran lunga il più grande rapporto debito/PIL nel mondo e storicamente è stato rivaleggiato solo dal debito del governo britannico dopo le guerre napoleoniche all’inizio del XIX secolo.

Il debito giapponese inizia a lievitare nei primi anni ’90 quando, dopo lo scoppio dell’enorme bolla immobiliare, l’economia scivola in uno scenario di bassa crescita/deflazione, mentre si susseguono deficit di bilancio mediamente del 5% annuo in tentativi frustrati di rilanciare la crescita. Risultato: in 20 anni il debito/PIL esplode dal 60% al 250% del PIL.

Con il governo che tutt’ora spende un po’ più di quanto tassa ogni anno, il debito giapponese continua ad aumentare seppure a ritmi inferiori.

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Parole vuote: “Competere”​

Una delle parole più pericolose e che invito a non usare è “competizione/competitività”.

Perché?

Perché gli studi strategici sulle imprese ci dicono che la parola “competizione” porta alla lunga alla distruzione dell’impresa, perché porta a fare sempre le stesse cose, solo leggermente diverse e con margini sempre più ridotti.

Se, invece, con competizione si intende “inventare cose nuove e uniche” e quindi non avere praticamente competitors va benissimo, però è strano, o meglio è pericoloso chiamare con la stessa parola cose tanto diverse.

“Ostinarsi a competere, quando si deve cambiare il mondo, porta a quella grande confusione collettiva che si chiama crisi”, scriveva Zanotti in un articolo illuminante del 2011.

Questo concetto è stato ripreso anche da Larry Page (co-fondatore di Google) in una intervista a Wired del 2013:

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Filosofi e Data Analyst

Recentemente, durante una trasmissione radiofonica di una importante emittente nazionale, si parlava di come la tecnologia sta trasformando il mondo del lavoro.

Tanti lavori spariranno, ma al contempo ce ne saranno di nuovi: molti non siamo neanche in grado di immaginarli, altri invece stanno già emergendo. Per esempio possiamo facilmente ipotizzare che in futuro saranno sempre più ricercati coloro che si occuperanno di analizzare e confrontare i dati: in poche parole i Data Analyst.

Non è importante citare la trasmissione (si dice il peccato, ma non il peccatore). E qual è il peccato in questo caso?

Il peccato (o il problema) è il commento di chi conduceva la trasmissione che invitava i giovani verso lo studio delle materie tecnico-scientifiche: quelle che hanno più futuro.

Mi ha davvero colpito un commento così banale e pericoloso di un/a giornalista importante e seguito/a su una radio che in teoria dovrebbe fare informazione.

Perchè?

I dati vanno interrogati, bisogna pensare, riflettere, avere spirito critico, pensare fuori dagli schemi, porre domande nuove: per fare questo un aiuto può venire anche da artisti, filosofi, letterati, che aiutino a pensare l’impensabile a mettere in discussione l’esistente.

Parlo di commento “pericoloso” perché rischia di accentuare uno dei problemi maggiori dell’odierna istruzione che è l’eccessivo specialismo e la contrapposizione dei saperi.

Si parla tanto di cambiamento, ma spesso restiamo molto alla superficie del problema.

Il ripensamento necessario deve essere profondo e radicale, invece troppo spesso si tentano piccoli aggiustamenti senza mettere davvero in discussione la cornice di riferimento: le “norme” di un certo approccio organizzativo ed economico si danno per scontate, sono talmente incorporate da risultare “naturali”.

In altre parole si parla tanto di cambiamento, ma sempre di tipo 1, e raramente di tipo 2.

Il cambiamento di tipo 1 fa riferimento alle premesse del sistema. Tale tipo di cambiamento una volta messo in atto lascia il sistema invariato.

Poi vi è un cambiamento di tipo 2 che non fa riferimento alle premesse del sistema e quindi dall’interno del sistema può apparire paradossale, illuminante o assurdo. Tale cambiamento cambia il sistema stesso, ma è molto di più difficile.

Di fronte ad un problema, cioè, cerchiamo la soluzione senza mettere in discussione la cornice, come se non si potesse fare in modo diverso.

Come nel gioco dei 9 punti da collegare con 4 linee che anche Marianella Sclavi cita nel suo libro “Arte di ascoltare e mondi possibili”.

Quel gioco è difficile perché in modo “naturale” noi vediamo un “quadrato” e tendiamo a provare a risolvere il gioco stando dentro ai limiti del quadrato. In realtà il gioco si risolve uscendo fuori dai limiti del quadrato.

In questo modo:

Qual’ è il problema? Che il quadrato non è nella realtà. E’ nella nostra testa. Troppo spesso diamo per scontato che certe cose non si possono fare, o pensiamo che non si possano fare diversamente, fino a che qualcuno ci mostra che invece è possibile.

La formazione serve a questo. A vedere i quadrati che abbiamo in testa e che non sappiamo di avere.

Torniamo quindi ai lavori del futuro: i Data Analyst vanno benissimo, ma se il problema principale è quello di far emergere i dati, è necessaria una competenza che diventa sempre più importante: quella di saper porre le domande.

O. Wilde in un suo famoso aforisma scriveva “chiunque può dare risposte ma ci vuole un genio per fare le domande“; una battuta che al giorno d’oggi assume una rilevanza del tutto nuova.

Come tutte le competenze anche quella di fare domande va allenata.

Di fronte ai nuovi problemi posti da Internet, Big Data e Industria 4.0 è sempre più importante una formazione che ci alleni ad affrontare questioni irriducibili andando oltre alla classica separazione tra materie tecnico-scientifiche e umanistiche.

Vuol dire che la capacità di fare domande viene allenata solo dai percorsi di studi classici o umanistici? No! Guai a ricadere in una altro falso mito e in unaltra sterile contrapposizione.

Oggi più che mai è importante a cominciare a costruire un ponte fra linguaggi, molto diversi e lontani.

I linguaggi dell’uomo e i linguaggi della scienza e della tecnica hanno cominciato a separsi nell’800: ora hanno bisogno di incontrarsi di nuovo, per costruire un linguaggio interdisciplinare difficile, ma quanto mai necessario.

La scienza e la tecnica hanno sempre più bisogno di punti di vista diversi e nello stesso tempo le nuove scoperte scientifiche integrano in modo nuovo i saperi filosofici, storici, letterari.

Perché? Perchè è solo l’ALTRO che ci aiuta a vedere il nostro punto di vista e i suoi limiti (e i quadrati che abbiamo in testa!).

Ecco perchè le professioni tecnico scientifiche hanno sempre più bisogno di competenze “altre” che stimolino nuove domande, mettano in discussione l’esistente e aiutano a fare ipotesi, a pensare l’inedito.

Non perchè uno tipo di studio sia meglio di un altro, ma perchè è fondamentale superare lo specialismo. E’ forse un caso che Maria Montessori non fosse laureata in Lettere ma in Medicina? E’ forse pensabile l’informatica senza i contibuti di Russell, Frege, Boole, Godel, che sono in tutti i manuali di storia della filosofia?

E così mi pare assai limitativo pensare ad un data analyst con conoscenze solo tecnico-scientifiche.


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Seminario per manager e imprenditori a Bergamo

L’idea base del seminario “NUOVI STRUMENTI E NUOVI LINGUAGGI PER LEGGERE IL MONDO DI OGGi”

C’è un disallineamento tra quanto la scienza sa e ciò che le imprese praticano. Ci sono tante scoperte delle scienze sociali – psicologia, neuroscienze, antropologia, filosofia, scienze della complessità ecc – che dimostrano tante cose su come siamo fatti e su come ci comportiamo, come apprendiamo, come motiviamo le persone, a quali condizioni possiamo creare qualcosa di nuovo e innovare.

Ebbene, spesso facciamo l’opposto. Non perché siamo stupidi o cattivi. A volte è proprio il buon senso o l’intuito che ci frega.

Il buon senso era anche quello che ci faceva credere che la terra fosse piatta oppure che fosse il sole a girare intorno alla terra. Non sembra forse cosi?

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Followership. Cosa ho imparato da Andrea Zorzi

Si parla tanto di leadership, ma mai avevo letto una riflessione così profonda e intelligente sul ruolo e l’importanza fondamentale di un buon follower.

Spesso, infatti, si sottolinea l’importanza del lavoro di squadra concentrandosi soprattutto sul ruolo e le responsabilità del team-leader ( o dell’allenatore nel caso dello sport), ma i giocatori o i singoli lavoratori come possono fare la differenza?

Ecco una bellissima testimonianza di Andrea Zorzi riportata da Marcello Svaldi in un post su Facebook.

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L’imprenditore come custode

Riporto una sintesi della bellissima intervista di Silvia Pagliuca ad Andrea Pontremoli, Amministratore Delegato e Direttore Generale di Dallara; una intervista che stimola numerose riflessioni per tutti coloro che sono imprenditori e hanno ruoli di responsabilità.

Secondo il McKinsey Global Institute  – chiede Silvia – quasi la metà dei lavori svolti attualmente da persone fisiche, nel mondo, tra qualche anno sarà automatizzato.

«Sì, ma attenzione, la tecnologia sarà lo strumento, non il fine. È quell’agente abilitante che ci consente di fare cose che prima erano impensabili, sia a livello progettuale sia produttivo. E tutto ciò rende la fantasia il nostro unico limite. Dunque, l’uomo sarà ancora più importante, a patto, però, che sia formato…. Perché tutti devono tornare a studiare, anche chi riveste posizioni dirigenziali».

Vale anche per lei?

«Certo. Vale per tutti, soprattutto per l’imprenditore che, a mio avviso, ha una responsabilità maggiore rispetto a chiunque altro.

A differenza del manager che deve solo perseguire degli obiettivi, l’imprenditore è un custode, prende un’azienda in consegna e deve restituirla più grande di come l’ha trovata. Non ne è l’assoluto proprietario, o forse lo è solo in maniera formale.

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Il nuovo ruolo dell’imprenditore (Genova)

L’idea base del seminario

C’è un disallineamento tra quanto la scienza sa e ciò che le imprese praticano. Ci sono tante scoperte delle scienze sociali – psicologia, neuroscienze, antropologia, filosofia, scienze della complessità ecc – che dimostrano tante cose su come siamo fatti e su come ci comportiamo, come apprendiamo, come motiviamo le persone, a quali condizioni possiamo creare qualcosa di nuovo e innovare.

Ebbene, spesso facciamo l’opposto. Non perché siamo stupidi o cattivi. A volte è proprio il buon senso o l’intuito che ci frega.

Il buon senso era anche quello che ci faceva credere che la terra fosse piatta oppure che fosse il sole a girare intorno alla terra. Non sembra forse cosi?

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Manager che studiano

Tutti sono d’accordo che per ruoli manageriali, oltre alle conoscenze tecniche, siano fondamentali anche le competenze relazionali come leadership, capacità di lavorare in gruppo, capacità motivazionale, creatività ecc.

Il problema è che spesso si tende a pensare che queste siano competenze innate, che non abbiano a che fare con lo studio e la conoscenza, ma sia sufficiente una certa naturale predisposizione.

Ma al di là di parole generiche proviamo a rispondere in concreto a queste domande.

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