Steve Jobs. L’intervista perduta

L’intervista perduta è un’intervista realizzata nel 1995 a Steve Jobs.  

Nel 1995 Jobs, dirigeva la Next da lui fondata dopo aver lasciato la Apple; da lì ad un anno e mezzo l’avrebbe venduta proprio alla Apple, tornando poi come amministratore delegato.

Per come le cose vanno in tv, fu usata solo una parte dell’intervista e si pensava che il master fosse andato perduto durante il trasporto da Londra agli Usa negli anni ’90. Il master fu poi ritrovato anni dopo dal direttore della serie televisiva in un suo garage.

Ci sono pochissime interviste televisive di Steve Jobs e raramente riescono a cogliere il carisma, il candore e la lungimiranza di quest’uomo.

Invito tutti a prendersi del tempo e ad ascoltare l’intera intervista che è davvero ricca spunti.

L’intervista è consultatabile su DVD edito da Feltrinelli, oppure su youtube:  https://www.youtube.com/watch?v=u7V22gat4CU.

l'intervista perduta

 

In questo post ho ripreso alcuni passaggi per me importanti e ho aggiunto qualche mia riflessione personale.

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Donne e impresa

Negli ultimi anni il numero di donne che lavorano in ruoli di responsabilità nelle imprese sta aumentando, ma l’aumento della presenza femminile ha cambiato, o sta cambiando, gli stili di leadership e le modalità di fare impresa?

E’ questa la domanda centrale.

Non è importante semplicemente l’aumento del numero di donne che fanno impresa, ma che l’imprenditorialità evolva accogliendo nuove modalità e visioni.

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Le frontiere etiche dell’innovazione

Sheila Jasanoff, professoressa di “Science and technology studies” alla Harvard Kennedy School di Boston si è molto interrogata sul rapporto tra tecnologia e democrazia.

Le sue riflessioni sono ricche di stimoli, non solo per chi si occupa di comunicazione e politica, ma anche per tutti gli imprenditori, responsabili, liberi professionisti che desiderano comprendere meglio alcuni problemi quotidiani delle imprese: la creazione di fiducia, la progettazione, la relazione, i limiti dell’intelligenza artificiale e il ruolo dell’imperfezione, la creazione di nuovi mondi. 

Riporto qui una sintesi dell’intervista realizzata dal National Geographic durante il Festival delle Scienze di Roma, dove Sheila Jasanoff ha tenuto una conferenza dal titolo “Le frontiere etiche dell’innovazione”: una critica importante e profonda ad alcuni paradigmi che diamo per scontati e che per questo non vediamo.

Ogni risposta è profonda e densa di implicazioni: alcune ho provato ad esplicitarle con alcuni miei commenti in calce alle sue risposte.

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Definizione di imprenditore

Riporto un post scritto da Francesco Zanotti nel 2015 che a mio avviso riporta una delle migliori descrizioni del mestiere dell’imprenditore (più efficace di quella di Shumpeter).

E’ tratta da un testo di un matematico originalissimo, scomparso nel 2014 (Alexander Grothendieck) citata nel capitolo “Il potere dell’innocenza” di Luca Barbieri Viale e Claudio Bartocci nel libro “Matematica ribelle” edito dal Corriere della Sera.

In grasseto gli incisi in grassetto di F. Zanotti che fanno riferimento al mestiere dell’imprenditore.

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La vita è un cammino…e quella dell’azienda pure. Una considerazione sistemica

Riporto una sintesi del post di Luciano Martinoli che – partendo dalle considerazioni di Enrico Pezzi sull’innovazione e la difficoltà delle imprese a “camminare” – riflette più in generale sulle differenze fra i sistemi viventi (come l’impresa) e le macchine.

Un computer – scrive Martinoli – si può spegnere e riaccendere a piacere, il sistema respiratorio umano, quello circolatorio, l’immunitario, ecc., se si fermano muoiono, portando al decesso l’intero organismo, senza nessuna possibilità di “riaccendersi”. Respirare significa farlo di continuo, in alternativa il sistema si dissolve.

La vita dunque, non solo quella biologica, è un cammino perché vivere significa andare da qualche parte, non rimanere fermi, l’alternativa, è la morte, altre opzioni non esistono.

Le aziende sono sistemi autopoietici e condividono le stesse dinamiche dei sistemi viventi.

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Sport, innovazione e bottiglie in plastica

E’ molto comune la metafora dello sport per descrivere il mondo dell’impresa.

Qualche giorno fa, per esempio, un articolo di Guido Romeo su Il Sole 24 ORE sottolineava il parallelismo fra giocare a basket e creare una start up .

Molto comuni sono anche i paralleli con il canottaggio o il rugby per sottolineare l’importanza del gioco di squadra o con gli scacchi per l’importanza della tattica e della strategia.

Chiaramente ogni metafora può aiutare a mettere in luce determinati aspetti e lo sport è sicuramente una palestra importante per imparare a dare il massimo e aver rispetto di compagni e avversari; a mio avviso, però, le metafore del mondo dello sport hanno due grossi limiti che rischiano di non far capire la specificità del mondo imprenditoriale.

Perché?

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Facciamo innovazione? Intervista a Enrico Pezzi, ingegnere e consulente

Enrico Pezzi, è un ingegnere meccanico che da quasi trent’anni lavora allo sviluppo di nuovi progetti meccanici e meccatronici: in particolare ha gestito (e continua a gestire) progetti per il settore aerospaziale, per la Formula 1, per componenti di auto, moto, biciclette e veicoli in genere.

Dalla sua esperienza emerge come l’innovazione di cui tanto si parla, non sia sempre al centro delle preoccupazioni di tante nostre imprese.

Anzi, troppo spesso nelle aziende si respira un’aria stanca, un po’ da sconfitti, dove ognuno preferisce rimanere fermo per non rischiare quello che ha.

Un’analisi lucida, spietata, ma estremamente concreta della crisi contemporanea.

In tanti settori – sottolinea Pezzi – abbiamo un mercato saturo, con clienti che non hanno più tanti soldi e che hanno già tutto e per questi due motivi sono disposti a comprare solo qualcosa di nuovo e che porta effettivi vantaggi. E abbiamo diverse aziende che presentano prodotti non nuovi, che non portano vantaggi e che si lamentano che non vendono.

Per fortuna ci sono le eccezioni e qualche speranza in più nasce da nuove imprese, anche se spesso ancora piccole.

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Quello che i soldi non possono comprare. Una riflessione sul sistema degli incentivi.

Ho speso gli ultimi due anni a considerare la scienza della motivazione umana; in particolare, la dinamica delle motivazioni esterne e di quelle interne e vi dichiaro che siamo in alto mare

Se prendete la scienza, c’è un disallineamento tra ciò che la scienza sa e ciò che le imprese fanno”.

Queste sono le parole di Dan Pink in una conferenza TEDX del 2009: “Sulla sorprendente scienza della motivazione”.

“Ciò che è allarmante”, continua Pink, “è che il sistema operativo del nostro mercato – pensate al complesso di assunti e di protocolli alla base del nostro mercato, a come motiviamo la gente – è costruito integralmente su motivatori esterni, il bastone e la carota. 

La cosa poteva andare bene per molti tipi di attività del 20° secolo, ma per le attività del 21° secolo, questo approccio meccanicistico di ricompensa e punizione non funziona. E tante volte produce danni.

Vediamo perchè.

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Il paradosso del Giappone: debito enorme, rischi minimi e…

IL PARADOSSO. Il livello del debito pubblico in Giappone non ha precedenti, scrive Marcello Minenna in un articolo del Sole 24 ore del 24 dicembre 2018.

 Pari a due volte e mezzo di quanto l’intera economia produce ogni anno – continua l’articoloè di gran lunga il più grande rapporto debito/PIL nel mondo e storicamente è stato rivaleggiato solo dal debito del governo britannico dopo le guerre napoleoniche all’inizio del XIX secolo.

Il debito giapponese inizia a lievitare nei primi anni ’90 quando, dopo lo scoppio dell’enorme bolla immobiliare, l’economia scivola in uno scenario di bassa crescita/deflazione, mentre si susseguono deficit di bilancio mediamente del 5% annuo in tentativi frustrati di rilanciare la crescita. Risultato: in 20 anni il debito/PIL esplode dal 60% al 250% del PIL.

Con il governo che tutt’ora spende un po’ più di quanto tassa ogni anno, il debito giapponese continua ad aumentare seppure a ritmi inferiori.

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Parole vuote: “Competere”​

Una delle parole più pericolose e che invito a non usare è “competizione/competitività”.

Perché?

Perché gli studi strategici sulle imprese ci dicono che la parola “competizione” porta alla lunga alla distruzione dell’impresa, perché porta a fare sempre le stesse cose, solo leggermente diverse e con margini sempre più ridotti.

Se, invece, con competizione si intende “inventare cose nuove e uniche” e quindi non avere praticamente competitors va benissimo, però è strano, o meglio è pericoloso chiamare con la stessa parola cose tanto diverse.

“Ostinarsi a competere, quando si deve cambiare il mondo, porta a quella grande confusione collettiva che si chiama crisi”, scriveva Zanotti in un articolo illuminante del 2011.

Questo concetto è stato ripreso anche da Larry Page (co-fondatore di Google) in una intervista a Wired del 2013:

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